Look again, my friend

C’era un gran freddo fuori sui balconi e per le strade, un odore di neve che si respirava a polmoni pieni, il pomeriggio che volgeva al termine, una coperta rossa ad avvolgermi di caldo. La pace di un abbraccio prolungato, i cuori che battono e si sentono tutt’intorno, l’attenzione ai dettagli e il bollitore sul fuoco. I giorni più belli degli ultimi tempi, pensavo tra me e me, i sorrisi che nascono ogni volta, la mia pelle liscia, i tuoi occhi scuri. Una volta o l’altra devo scrivere di te volevo dirti ma è finita che ne scrivo ugualmente, senza averlo detto mai.

A guardare bene, il futuro finisce che si fa scorgere, mi dico. Salta fuori all’improvviso mentre giri il tuo caffè del mattino, un gesto pressochè inutile, quando lo bevi senza zucchero. E dopo tutte le domande che ti sei posto su come sarebbe andata su come avresti voluto su quanto rimanga da vedere chiaramente, c’è un tempo per ogni cosa, anche per non voler guardare.

Quel giorno mi sono risvegliata con il profumo del thè, rumore di cucchiaini nella stanza, i Calexico nelle casse intorno al letto, e tu che mi chiedevi come stai? E ora te lo voglio dire, che stavo benissimo.

 

Sperando nell’arrivo di un dottore

La stanza sa di cenere
alle pareti un solo quadro
jeanne moreau che sorride
incerta tra jules e jim.
Tutti quei libri
ad impolverare parole
letti solo in parte
o riletti più volte.
Lui dice il color lavanda
mi leva la luce dagli occhi
apre le tende
ma fuori è il buio
ormai quasi domani.
Il domani non lo voglio
dice a sguardo basso
non lo voglio se non con te
e passa una mano sul mio braccio
e passa gli occhi sul mio seno.
E adesso come posso
rapirti davvero
portarti via da qui
leggerti le fiabe la sera.
Il lieto fine
non era il nostro
l’ho rubato da una sacca
e non portava il mio indirizzo.

To rewind

Quell’estate eravamo all’incirca una decina, è strano a dirsi ma non mi ricordo esattamente tutti, anche se non ci si separava mai, anche se era L’ESTATE. Quella della prima vacanza vera con gli amici, quella della tratta Spagna-Portogallo-Marocco che per noi era solo Spagna-Spagna-Spagna. Giravamo col nostro braccialetto di Benicassim come un trofeo da vantare in battaglia, lo scalpo di un nemico, la non lucidità della veglia continua. Il mio amico F. si era portato dietro la cassetta di Clandestino, l’album di Manu Chao che, manco a dirlo, era uscito proprio quell’anno 1998. Era come una specie di coperta di Linus sgualcita e orrenda, risuonava ad ogni ora del giorno e della notte, e come i gruppi rap degli anni 80 ce ne andavamo in giro con quel piccolo stereo scassato che ripeteva solennemente la voce di Manu Chao, manco fosse il rosario di Radio Maria. Io, dopo quasi tre giorni che non chiudevo pressochè occhio per cause naturali e non, avevo raccolto tutte le mie forze ad una ad una per riuscire a seguire il concerto della Super Polly Jean Harvey e subito dopo quel delirio di chitarre sguaiate e tutine di latex rosa, crollai nel sonno proprio nel bel mezzo del concerto dei Sonic Youth, qualcuno ancora non me lo perdona ma che dormita ragazzi, una delle più belle e necessarie de mi vida. Bjork chiuse quella tre giorni con un concerto di bianco vestita e un orchestra di 30 elementi, robe mai viste per chi come me era stata al massimo a vedere gli amici strimpellare invocazioni contro il cielo. Così rimanemmo giorni e giorni su una spiaggia poco lontano, dopo aver pagato l’ingresso ad un campeggio in cui mai mettemmo piede se non per recuperare un amico che ci era finito a limonare con una di cui sembrò non ricordare alcunchè. Ma una sera, inaspettatamente, la spiaggia meravigliosa che ormai millantavamo come nostra dimora, venne profanata da un’invasione in piena regola, barbari che arrivavano dalle montagne, orchi con casse e casse di birra al seguito, giocolieri trampolieri nani e ballerine. Tienimi in borsa la cassetta, mi disse F, ormai palesemente schiavo di Manu Chao (che se glielo chiedete oggi, nemmeno sotto tortura o dietro adeguato compenso vi dirà che è vero) e si buttò in mezzo alla folla attirato da un cartello che diceva Calimocho. E così facemmo tutti, fatta eccezione per il Calimocho, ovvio, che io davvero lo detesto. Fu una serata epocale, persone che venivano da ogni parte del mondo, la leggerezza acuta dei 20 anni, le stelle del quasi ritorno, il bagno di mezzanotte, e quello delle tre, e quello dell’alba, le candele sulla sabbia, gli abbracci degli sconosciuti. Ma nemmeno a farlo apposta, come un monito che arriva dritto dall’autunno, ad un certo punto misi mano nella borsa e trovai il nastro di Manu Chao che ci vagava dentro senza più ordine nè disciplina. La cassetta era ormai inascoltabile e l’estate era alla fine. Guardai il ragazzo francese per cui avevo un debole inguaribile da qualche ora, mi accucciai di fronte a lui e misi il nastro sulla sabbia, proprio fra noi due. Lui fece un sorriso a denti bianchissimi e occhi nocciola, si aggiustò la camicia, mi spostò i capelli dietro l’orecchio e mi disse thank you, come fosse il regalo più bello che si potesse ricevere allo scoccare dell’alba.

Perchè è così che va, a volte un grazie ti basta per racchiudere in un ricordo molte altre cose.